diario

Tutti i miei tentativi sulla pratica di tenere un diario nel corso degli anni sono falliti. Non so cosa abbia maggiormente favorito la dispersione, se la velocità della rielaborazione di alcuni pensieri nella mia mente o l’endemico bruciante fastidio verso la metamorfosi nervosa della mia calligrafia quando il pensiero è feroce abbastanza da mangiarsi il vuoto nella pagina (quesiti per esteti romantici e decadenti). O forse, trattandosi perlopiù di rilessioni sentimentali, per la sostanza del contenuto (ne convengo ora: melensaggini grottesche).

Però passando molto tempo a rimuginare nella testa e non avendo grandi slanci di compagnie discorsive per il mio piccolo mondo solitario e irregolare, credo che un certo salutare sfogo su carta e penna possa giovarmi.

Ogni tanto pubblicherò qualcosa per il semplice fatto che forse qualche riga potrebbe aiutare a capire alcuni lavori, sebbene io non creda al fatto che un artista debba costantemente spiegarsi, ma saggiare a pelo d’acqua gli impulsi originari non è forse interessante?

Forse.


La pittura mi fa paura.

È qualcosa di troppo intenso, troppo grande, grande, come un paesaggio in cui il respiro può espandersi. Ma io non posso, non posso ricreare quel paesaggio, non posso raggiungere la bellezza. Dipingo perché mi impongo di affrontare la paura. Salto e so che mi spezzerò (da qualche parte) ma non importa.

La pittura è una chimera, un mostro, una dea accecante. Sono come un umile scudiero, posso soltanto mostrare coraggio.


Ho visto un film su Emily Brontë e ho pensato al senso dell’urgenza, come fosse qualcosa che circola nel sangue e le ferite aiutassero a buttar fuori e mi chiedo quante ferite ci procuriamo da soli per il bisogno di sputarla fuori.